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Jürgen Habermas con Giancarlo Bosetti

“Sono d’accordo con Joschka Fischer, il disegno dell’Europa federale è l’unico realistico”. Jürgen Habermas, il filosofo della triade “morale, politica, diritto” è un forte sostenitore dei kantiani ordinamenti sovranazionali, ma anche del modello di vita europeo. Due anni fa propugnava, in un articolo, la Carta europea dei diritti. Adesso che la Carta è stata approvata dal vertice europeo - spiega in questa intervista a “Caffè Europa” - vuole la Costituzione, una vera Costituzione. E dove c’è Costituzione c’è Stato, cosa sulla quale non tutti sono d’accordo, come si è visto dalle conclusioni non prorompenti di Nizza.

Ma andiamo per ordine e sentiamolo poco prima della sua partenza da Starnberg per Roma, dove parteciperà, venerdì e sabato, al convegno della Fondazione Basso su “Sfera pubblica e Costituzione europea”.

Il titolo del suo intervento all’incontro di Roma, professor Habermas, è “Perché l’Europa ha bisogno di una Costituzione”, senza dubbi e punti di domanda. Poco più di un anno fa, in un articolo pubblicato su “Reset” lei aveva dubbi, parlava di passi preliminari. Ha cambiato opinione?

A quell’epoca parlai di una ‘Carta’; ma questo termine, ormai, per la Carta europea dei diritti fondamentali si è logorato. Tuttavia, sia che parliamo di “contratto costituzionale”, di “legge fondamentale” o semplicemente di “Costituzione”, quel che si intende è sempre lo stesso passaggio: l’Unione Europea non deve più sussistere soltanto sulla base dei trattati internazionali, bensì concepire se stessa come un ordine politico che i cittadini dell’Europa si diano da se stessi. A tale scopo è necessario un referendum - da svolgersi in tutta Europa - sulla questione della Costituzione europea, la cui prima parte io considero corrisponda a quei diritti fondamentali che sono stati appena proclamati a Nizza.

Ma a proposito di Nizza, qual è il suo giudizio sui risultati del vertice? Siamo più vicini o più lontani da una Costituzione europea?

Se si osserva il vertice di Nizza da questa prospettiva, sono stati raggiunti tre risultati: in primo luogo, l’allargamento dell’Unione ad est, di cui ora si sono fissati i termini temporali, ci avvicina allo scopo di una definizione definitiva delle frontiere dell’Unione stessa. In secondo luogo, si è trovato l’accordo sul “principio della flessibilità”: ciò significa che, in un’Europa allargata, si potrà costituire un nucleo di Paesi membri, che potranno fare più strettamente causa comune allo scopo di perseguire determinati scopi in importanti ambiti politici. Ed infine tutto l’accapigliarsi intorno alla questione della ponderazione dei voti e delle decisioni a maggioranza ha mostrato chiaramente a tutti i partecipanti che, nella prossima conferenza del 2004, si dovrà regolamentare in maniera generale la ripartizione delle competenze tra i diversi livelli politici - cioè tra l’Unione, gli Stati membri, le Regioni o i Länder.. Questa è la questione centrale che riguarda la parte organizzativa di una futura costituzione. Siamo dunque già sulla strada di trasformare l’Unione Europea dei trattati in un’Unione Europea legittimata da una Costituzione.

Intanto abbiamo comunque la “Carta dei diritti” approvata a Nizza. Come la giudica?

Questo documento è l’espressione agguerrita, ben riuscita, di una autocomprensione normativa di noi stessi, della quale noi europei dobbiamo essere orgogliosi. Un esempio di questo è l’articolo 3. Le determinazioni prese riguardo alla bioetica ed alla clonazione umana rispondono con giuste autolimitazioni etiche alle nuove possibilità di manipolazione, aperte dalla biologia e dalle biotecnologie. Inoltre, la carta dei diritti fondamentali ha un contenuto sociale più forte che non i trattati finora in vigore. E questo, sebbene i diritti fondamentali per il momento siano stati soltanto “proclamati”, non mancherà di esercitare i suoi effetti anche sulla giurisdizione della Corte Europea di Giustizia, la quale finora si è orientata in misura crescente verso i diritti di libertà economica.

Nella discussione di questi mesi Joschka Fischer, con il discorso alla Università Von Humboldt a Berlino, ha messo sul terreno una posizione chiara: un compiuto disegno federale per l’Europa. Ma questo progetto è stato combattuto da parti diverse, dalla Francia (Chirac, l’ex ministro Chevènement e tanti altri) in nome dello stato nazionale e dalla Gran Bretagna (Blair, Giddens) nel nome di una visione cosmopolitica che rifiuta le burocrazie sopranazionali.

Io condivido l’opinione di Fischer, poiché è la sola opinione realistica. Una Federazione Europea, che non consista solo di Stati, ma che assuma essa stessa alcune caratteristiche di uno Stato - che, ad esempio, mediante una propria riscossione delle imposte, diventi finanziariamente autonoma - è una conseguenza dell’unione economica, voluta a livello politico ed ormai completata. Dopo la rinuncia alla sovranità monetaria e l’istituzione di un mercato comune, gli Stati membri europei possono rinunciare ad una loro ulteriore unione politica solo se vogliono votarsi a lungo termine al paradigma neoliberista del regime economico che oggi regna in tutto il mondo. Oggi osserviamo l’abdicazione della politica nei confronti degli imperativi di un’economia transnazionale lasciata libera di fare il suo corso. Ma questo è il risultato di decisioni politiche, e dunque non si tratta di un processo che non possa essere capovolto. Fino a questo momento, la politica gestita democraticamente è l’unico mezzo per ottenere un’azione consapevole da parte dei cittadini nei confronti del loro destino collettivo.

Anthony Giddens, in un saggio e in una intervista a “Caffè Europa” ha criticato Fischer in modo molto netto e con toni definitivi: “L’Europa non è e non sarà mai uno Stato”. Come reagisce a questo giudizio?

Dicendo che quella cosa, in conclusione, dipenderà dal fatto che i popoli d’Europa lo vogliano o meno.

Ma come può l’Unione europea andare avanti, “approfondirsi”, senza il consenso della Gran Bretagna?

Fino ad oggi, l’Unione Europea è stata portata avanti soprattutto sulla base di interessi economici. Questi interessi, oggi, continuano ad essere determinanti solo per i paesi dell’est o dell’Europa centrale, candidati all’ingresso nell’Unione. Il deludente risultato del vertice di Nizza rispecchia le riserve che regnano negli altri paesi europei. Stiamo di fronte a quella soglia che separa una volontà politica da interessi puramente economici.

E allora, come procedere oltre?

Una volontà politica non può costituirsi se manca una prospettiva chiara. Chiedo: i cittadini d’Europa condividono davvero il modello umano neoliberista, in base al quale ogni persona deve diventare al tempo stesso imprenditore e sfruttatore della propria forza lavoro? Perché è questo che sta dietro alla politica sociale che si presenta come “investimento sul capitale umano”. Vogliono davvero, i cittadini europei, una società in cui la maggioranza debba chiudere gli occhi di fronte a stridenti disuguaglianze sociali ed a minoranze marginalizzate? Se è così, devono sapere però che questa è la conseguenza di una concezione della giustizia altamente selettiva, che si esaurisce nelle “pari opportunità”. Gli europei vogliono davvero un futuro in cui la democrazia diventi soltanto una facciata, e dove lo Stato si specializzi nella garanzia delle libertà del mercato, e la politica nella creazione di condizioni favorevoli per la libera concorrenza?

Quindi lei difende il modello sociale europeo contro quello angloamericano?

Queste sottolineature polemiche servono qui soltanto a rendere più chiaro il fatto che gli europei non hanno solo da difendere una posizione, bensì una Lebensform, una forma, uno stile di vita. Per questa ragione essi dovrebbero essere interessati al fatto di poter parlare con un’unica voce, per riuscire a farsi ascoltare nel consesso internazionale.

Quando lei parla di federalismo ha in mente il modello americano, di Madison, Jay e Hamilton? O una versione sostanzialmente diversa della cosa?

L’Europa potrà essere soltanto uno stato di nazionalità nel quale anche le più piccole nazioni manterranno il loro orgoglio e la loro identità e potranno dunque far valere la loro lingua e la loro cultura. Tutto ciò si manifesterà diversamente che negli Stati Uniti. In Europa per esempio un Senato - o una seconda Camera, che scaturisca dagli sviluppi dell’attuale consiglio dei ministri - avrà una posizione più forte di quella che ha in America.

E’ in condizione l’Europa di avere una Costituzione, nel senso di qualcosa di più impegnativo di una pura carta di principi, di qualcosa di più di un documento di intenzioni politiche? L’Europa è una comunità che possiamo considerare come una “Öffentlichkeit”, come la chiama lei, vale a dire una “sfera pubblica”? Esiste insomma una opinone pubblica europea, c’è un discorso pubblico europeo?

Bisogna chiedersi all’opposto: una comunità politicamente costituita che compensi il deficit democratico delle autorità di Bruxelles e che ne ridefinisca anche ufficialmente il peso politico non contribuirebbe forse alla costruzione di un sistema europeo dei partiti e di una società civile europea? e nello stesso tempo anche di una sfera pubblica europea e di una cultura politica comune? Bisogna immaginare il costituirsi di uno Stato e di una società come un processo circolare. Di una opinione pubblica europea si può parlare nella misura in cui le arene nazionali si aprono l’una verso l’altra.

Nonostante le concentrazioni economiche il sistema dei mass-media resta molto nazionale.

Non abbiamo bisogno di media europei, ma di media che nel proprio paese facciano presenti le discussioni che avvengono negli altri paesi. Di questo è stata un esempio la copertura di Nizza che nei giorni scorsi è stata data da La Repubblica, Le Monde, dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung o da El Pais. Un servizio informativo di questo genere dovrebbe continuamente preoccuparsi che i cittadini di diverse nazioni si interessino nello stesso tempo degli stessi temi e che si possano formare una opinione sulle stesse questioni controverse. Se c’è una tale apertura e una tale convergenza dei discorsi nazionali il filtro della traduzione tra l’uno e l’altro non è un ostacolo.

Al momento l’idea di una Europa politica è consapevolmente condivisa da una parte delle élites, specialmente in alcuni paesi. Ma può l’Europa essere costruita da una minoranza?

Gli intellettuali hanno fin qui ampiamente lasciato la questione europea ai politici. Essi potevano giocare un ruolo positivo, antielitario allo scopo di stimolare una più larga discussione. Potevano intraprendere iniziative che mettessero in moto la costruzione democratica di una volontà sulle cose europee, al di là del populismo di Haider o di Stoiber.

Dopo l’unificazione la Germania è diventata molto più grande degli altri grandi dell’Unione, in popolazione e reddito lordo. Si è parlato della rivendicazione di un numero di consiglieri maggiore degli altri. Quale sarà il ruolo del suo paese nel continente, verso Est e verso Ovest?

Penso che Schroeder abbia reagito nella maniera giusta ai timori di Chirac. La Germania non doveva avere alcuna aspirazione ad uno speciale ruolo guida in Europa e neppure doveva avvalorare i timori che noi tedeschi potessimo avere simili aspirazioni. La tradizione della vecchia Bundesrepublik è ancora abbastanza forte per immunizzare la Repubblica di Berlino da false tentazioni. Quella che io mi auguro è una Germania cooperativa in una Europa che cresce insieme.


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